AT BIBLIOTECA 2
Voci dal silenzio di Paola Molteni (Franco Angeli 2011) è anzitutto un libro di testimonianze sulla condizione di vita degli autistici e delle loro famiglie. Non bisogna mai dimenticare che l’autismo è una patologia che colpisce in modo estremamente pesante le famiglie delle persone con autismo, che spesso sono lasciate sole davanti alla scelta tra l’eroismo e la disperazione. Nel libro è presente anche l’esperienza di Autismo Treviso e dell’Orto di San Francesco, come piccolo segno della possibilità di un’operosa terza via. Guido e Valentino qui nominati sono nostri ragazzi.
La ormai vasta produzione di libri sull’autismo può essere suddivisa in due grandi filoni: i libri scritti dagli esperti (scienziati, educatori, psicologi ecc.) e quelli di testimonianza (da parte di un genitore o anche di una persona con autismo). Anche se è ricca di testimonianze, l’opera di Paola Molteni non rientra propriamente in queste due categorie. Infatti l’autrice di Voci dal silenzio  non è né un’esperta di autismo né un familiare, bensì una giornalista, che vuole conoscere il fenomeno autismo e contribuire, con una sorta di indagine, di viaggio conoscitivo, a dare voce a chi ne ha poca o nessuna. Dal punto di vista della divulgazione scientifica, la Molteni si è valsa di un contributo sostanzioso di Lucio Moderato, che spiega, in modo chiaro e ben comprensibile anche a chi ne sa poco, quel che oggi la scienza ci può dire sulla sindrome e sui modi corretti per trattarla. La parte più ampia del libro è dedicata alle voci di alcuni genitori e gruppi di genitori, che possono parlare in luogo dei loro figli, che voce non hanno. E bene ha fatto Paola Molteni ad aprire le sue pagine con una lettera, vibrante e drammatica, con la quale Maria Cristina, la mamma di Filippo, espone la situazione della sua famiglia, nella quale un gran numero di famiglie di persone con autismo potranno perfettamente riconoscersi. Il pensiero che mi è continuamente presente è questo: tutti i politici che si occupano di sanità e welfare dovrebbero leggere questo libro.
Il libro di Paola Molteni lascia al lettore una duplice impressione. Da un lato quella che sia ormai abbastanza chiaro cosa si dovrebbe fare per affrontare e gestire seriamente la questione dell’autismo, dall’altra quella di un’inerzia, di una lentezza delle istituzioni e dei servizi a tutti i livelli: per cui ancora le famiglie  sono lasciate sole col loro terribile problema, o ricevono un sostegno largamente inadeguato. Trovo che l’essenziale sia espresso a p. 40: «Si può uscire dall’incubo dell’autismo imparando a vivere in questa condizione. Senza sperare nel miracolo impossibile che il bambino guarisca ma aiutando quel piccolo a realizzare la sua persona “unica”, con i suoi peculiari punti di forza, motivazioni, inclinazioni e limiti, dolcezze e rifiuti.
Un obiettivo possibile solo se perseguito insieme ai genitori, i primi educatori dei propri figli, i veri esperti della loro quotidianità. Ecco perché è così importante che i terapeuti e i professionisti promuovano la formazione educativa di madri e padri e si affianchino a loro nel duro lavoro della riabilitazione.»
Proprio questo punto, la stretta connessione, il coordinamento e la collaborazione autentica e pervasiva tra istituzioni e famiglie è in realtà il problema più urgente. E qui ribadisco il mio chiodo fisso: occorre assolutamente che vi sia un intervento del legislatore che sani la situazione per cui a 18 anni, con l’uscita dalla gestione della neuropsichiatria, il soggetto autistico perde la diagnosi. Infatti da noi un soggetto che abbia ricevuto la diagnosi di autismo infantile col passaggio alla psichiatria diventa ufficialmente uno schizofrenico, un epilettico, un affetto da disturbo bipolare e quant’altro. E la parola autismo sparisce. Ma se una parte dei soggetti autistici presenta comorbilità, il fattore fondamentale rimane l’autismo. La sparizione dell’autismo dalle diagnosi post diciottesimo anno significa la sparizione degli autistici e l’impossibilità di affrontare a livello generale, organizzativo e anzitutto legislativo il problema del percorso di vita umano di queste persone (e delle loro famiglie).

Defeating autism: a damaging delusion (Routledge 2009) è un libro che presenta una visione critica e razionale della questione generale dell’autismo e dei trattamenti che per esso vengono offerti. Michael Fitzpatrick, medico inglese e padre di una persona con autismo, analizza in particolare i nessi e le azioni e reazioni che  si sono sviluppati in questi anni tra associazioni di genitori e professionisti di varia provenienza e onestà intellettuale, originando il movimento biomedico, che promuove appunto la dannosa illusione di una sconfitta dell’autismo. L’analisi di Fitzpatrick è penetrante e ben argomentata, e molto interessante anche per i risvolti psicologici che pone in luce. Dal canto nostro, abbiamo sempre rilevato la presenza nel movimento biomedico del meccanismo del capro espiatorio,  ovvero della necessità di individuare uno o più responsabili umani del male che si patisce (in questo caso l’autismo del figlio), unito alla teoria della congiura, per cui chiunque rifiuti la tesi (che nessuna ricerca scientifica seria ha potuto supportare) di un legame tra vaccini e autismo è sottoposto a linciaggio, ritenuto servo di Big Pharma, ecc. Gli elementi ideologici alla base di DAN! & C., e la lontananza dalle procedure della scienza autentica (sempre fortemente autocritica e aperta al dibattito, mai divisa tra amici e nemici) sono esposti con chiarezza in questo libro, di cui sarebbe altamente auspicabile una traduzione italiana.


Pubblicato in traduzione italiana da Erickson nel 2011, L’autismo da dentro è un libro di Hilde De Clercq che dovrebbe essere letto da tutti coloro che si occupano di autismo. Come il titolo dice chiaramente, lo sforzo che l’autrice ha fatto, e che si dovrebbe fare sempre, è quello di vedere le cose nella prospettiva della mente autistica, il cui funzionamento è peculiare e differente dalla mente del soggetto neurotipico. Se non si conoscono le modalità del funzionamento della mente autistica, modalità che spiegano gli atteggiamenti apparentemente senza senso e i comportamenti problematici, ogni terapia e ogni processo educativo potranno ottenere risultati parziali e privi di un signficato sostanziale, e spesso andranno incontro al fallimento. Qualsiasi educatore deve conoscere la realtà dell’educando. Invece spesso avviene che i nostri figli con autismo siano affidati ad insegnanti, educatori, addetti all’assistenza e terapisti che della mente autistica non sanno nulla, o che ne hanno solo nozioni estremamente vaghe. Con gli esiti che si possono immaginare.

Qui si può leggere il testo di una tavola rotonda organizzata da Seth Mnookin, nella quale si delinea la situazione generale in cui versa oggi la questione dell'autismo negli Stati Uniti .

Il libro di Tiziano Gabrielli e Patrizia Cova Out Aut (sottotitolo: Manuale di Pratica Abilitativa dell’Autismo e Disturbi Evolutivi Globali dello Sviluppo Psicologico) – Primo Volume, Vannini 2010, presenta un serio limite, già evidente nel sottotitolo stesso: la farraginosità. La scrittura è pesante e faticosa, la stessa struttura del libro non agevola il lettore, che deve essere volonteroso, e superare l’impatto con le tortuosità e la collosità dello stile. Nonostante questo limite, Out Aut dovrebbe essere letto da tutti quelli che si interessano di autismo in Italia, e specialmente dai professionisti. Il testo di Gabrielli e Cova ha infatti un pregio che bilancia abbondantemente il difetto: svolge un discorso critico, mentre quasi tutto ciò che in Italia si pubblica sull’autismo non conosce questa dimensione. Poiché quasi tutto quello che si pubblica sull’autismo non è libero da interessi particolari, professionali, di scuola, istituzionali, ecc. Invece Gabrielli e Cova non soffrono di condizionamenti esterni alla loro volontà di comprendere l’autismo (a partire da quello del figlio), e combatterlo. Gabrielli ha una seria preparazione scientifica di base (essendo un medico odontoiatra) che si percepisce chiaramente nel rigore dell’impostazione, e Cova ha evidentemente una predisposizione all’insegnamento e all’abilitazione che le ha consentito di educare il figlio a casa. Il percorso intrafamiliare di Gabrielli, Cova e del figlio Jacopo è però solo la base da cui i due coniugi sono partiti per una comprensione dell’autismo approfondita, in grado di confrontarsi in modo altamente consapevole e critico con le grandi scuole interpretative e di abilitazione oggi dominanti.
In realtà, questo primo volume non è esattamente un manuale, anche se non vi mancano indicazioni pratiche. In esso prevale la dimensione del saggio, con una forte concentrazione su alcune idee fondamentali, la prima delle quali è la centralità della stereotipia – comportamento stereotipato all’interno della sindrome. Per G. e C. tutte le grandi scuole hanno trascurato e trascurano la stereotipia, in qualche modo la sottovalutano e la marginalizzano, mentre essa costituisce il cuore del problema dell’autismo. Anche gli stessi comportamenti-problema, che tanto sconvolgono le famiglie, e che richiamano l’attenzione dei professionisti sollecitando interpretazioni circa le cause scatenanti ecc., per G. e C. hanno una sola funzione: quella di consentire al soggetto autistico di rientrare nella dimensione per lui più gratificante: la condizione della stereotipia. Ragione per cui l’abilitazione deve puntare costantemente ad interrompere le stereotipie fornendo al soggetto autistico elementi stimolanti-interessanti, che lo possano allontanare – all’inizio magari per pochi secondi soltanto – dalla condizione patologica. Quello che continuamente nel libro viene chiamato affrancamento si può ottenere solo con una abilitazione che definirei strenua.

In molti passi del libro emergono prepotentemente le assurdità, le imprecisioni, le incertezze, le impotenze dei  trattamenti e delle “abilitazioni” offerte dal sistema socio-sanitario. Una situazione complessivamente disastrosa, come tutti sanno. La via dell’abilitazione in famiglia intrapresa dalla famiglia Gabrielli, fondata sull’idea (in sé giustissima) che l’abilitazione di una persona con autismo deve durare 24 ore al giorno, pone però, a mio modo di vedere, un grave problema: richiede un contesto particolare, che nella stragrande maggioranza dei casi non c’è e non potrà mai esserci: un padre preparato e impegnato, risorse economiche, una madre talentuosa e decisa a dedicare tutto l’impegno al figlio. Inoltre, come sempre accade in casi simili, si scorge il pericolo immanente della colpevolizzazione. Un tempo le madri soprattutto subivano l’insulto del sospetto di essere esse la causa dell’autismo del figlio (con l'oggettificazione del bambino di cui ancora blaterano i lacaniani), oggi la invece colpevolizzazione si situa prevalentemente a livello del non adeguato impegno abilitativo della famiglia (ma come? non ti sei venduto la casa per far fare le necessarie ore di ABA a tuo figlio? ma come? non ti sei dedicato anima e corpo in prima persona all’abilitazione del piccolo? ma che genitore sei? – o anche, peggio: non l’hai detossificato? non gli hai fatto fare l’iperbarica? bestia! hai tradito la tua missione di genitore). Gabrielli e Cova questo pericolo lo sfiorano soltanto, ma mette conto rilevare la tematica.

Gli spunti critici offerti da questo libro sono troppo numerosi per un post. Come il focus posto su quelli che vengono chiamati i motori. G. e C. sottolineano il pericolo che anche l’abilitazione venga in qualche modo a sottomettersi al patologico, assumendone la struttura di fondo, ad es. la tendenza alla ripetitività. Un pericolo da cui TEACCH e ABA non sono esenti. Nell’autismo infatti il patologico tende a colonizzare tutto.

«La proposta ripetuta più volte, sino ad ottenere la giusta risposta e la cui sequenza viene reiterata sino a sicurezza esecutiva, aumenta le probabilità di giungere all’esattezza, avvalendosi di rinforzi o premi, ma aiuta poco a pensare. La memorizzazione è povera o aggregata. Va benissimo all’inizio, quando la mente è ancora poco disponibile e molto disturbata dal disfunzionamento. Con il tempo l’abilitazione si deve aprire ad altro.» (p. 248, nota 33) Poiché la mente autistica è una mente «disfunzionale ma sicuramente meno “comportamentista” di quello che ci si aspetterebbe dai primissimi risultati, che sarebbe pertanto opportuno non gravare di orpelli procedurali che poi si dovranno comunque abbandonare (come infatti anticipa la necessità del fading dei prompt e dei rinforzi) in toto e non solamente in parte. La necessità di non aderire eccessivamente ad uno schema metodologico è importante nell’autismo. Bisogna aprire rapidamente la mente a diverse possibilità di sperimentare, seppur selezionate e rigorosamente valutate nella loro applicazione. Devo far funzionare più possibile la mente, una volta che ho interrotto il suo disfunzionare, anche se ho il dovere di procedere in modo ragionato e per singoli step. Non si deve pretendere troppo ma nemmeno bloccare le potenzialità intorno ad un dogma». (p. 249)


Isabelle Hénault, Sindrome di Asperger e sessualità, 2005, trad. it. della Cooperativa LEM, LEM libraria 2010.  Quella della gestione della sessualità è una delle questioni più spinose che si pongono a tutti i gruppi e società umane. Nell’ambito della disabilità mentale ciò che è già di per sé problematico accentua la sua problematicità. Le persone con sindrome di Asperger si trovano nella zona d’ombra tra disabilità e neurodiversità, e di questa oscillazione chiunque legga il libro di Isabelle Hénault si può ben rendere conto. Riporto un passo della prefazione di Tony Attwood.

"Le persone con sindrome di Asperger hanno i medesimi interessi, orientamenti e problematiche sessuali della maggioranza delle persone. Tuttavia, gli adolescenti e gli adulti che sono colpiti da questo disturbo sperimentano delle difficoltà nel «leggere»  e nel comprendere le intenzioni e le emozioni sottili e complesse degli altri, così come nel comunicare efficacemente i propri pensieri e i propri sentimenti intimi. Hanno anche difficoltà sul piano della percezione sensoriale, delle relazioni interpersonali e della comprensione delle convenzioni sociali. Questi disturbi del comportamento hanno senza alcun dubbio ripercussioni importanti sullo sviluppo sessuale. Comprendiamo sempre meglio la sindrome di Asperger e miglioriamo di continuo le nostre competenze in questo campo. Inoltre, possediamo vaste conoscenze e una grande esperienza con ciò che riguarda la sessualità in generale. La tappa successiva consisteva dunque nel pubblicare un’opera che riunisse questi due tipi di saperi e di esperienza clinica per permetterci di comprendere meglio la sessualità delle persone con sindrome di Asperger. È ciò che Isabelle ha fatto scrivendo questo libro di riferimento nel quale propone programmi di educazione sessuale e di intervento". (p. 10)







Autismo. Dalla comprensione teorica alla pratica educativa, è un bel libro di Theo Peeters, ripubblicato nel 2009 in edizione ampliata e riveduta, e tradotto da S. Bandirali per le edizioni uovonero nel 2012. In questa edizione è stato inserito anche un capitolo scritto da Hilde De Clercq sulle percezioni sensoriali, un aspetto davvero importante nell’autismo, del quale solitamente ci si occupa abbastanza poco. Questo di Peeters è un testo che al lettore offre una possibilità di comprensione del fenomeno autismo quale raramente è offerta altrove, ed è anche un testo pervaso di umanesimo: dona apertura mentale ma anche la richiede. Inoltre, la categoria del rispetto per la sofferenza, la fragilità e l’alterità delle persone con autismo, che è una delle doti che Peeters richiede ai professionisti, implica una intelligenza nel procedere e una capacità di entrare nella mente dell’altro diverso senza fermarsi all’epifenomeno, che è purtroppo merce rara. Penso che un’attenta lettura di questo libro sia anche oggi una necessità per tutti quelli che vogliono occuparsi seriamente e umanamente di autismo. Mi limito a citare due brevi passaggi.

«…molti dei comportamenti stereotipati hanno una funzione chiara. Le persone con autismo vogliono creare sicurezza e prevedibilità per sfuggire e proteggersi dalle situazioni difficili, tenere lontana la paura, stimolarsi e ricevere ricompense. Vogliamo portar loro via tutto questo? Quale prezzo pagheremmo in termini umani? Molti giochi stereotipati, ovviamente, sono funzionali a un certo numero di caratteristiche fondamentali delle persone con autismo, sono conformi al loro stile cognitivo rigido, sono prevedibili e danno loro un senso di euforia. Inoltre possono essere una forma di ricompensa e non hanno bisogno di noi per questo. In altre parole, hanno diritto a questi giochi. Le terapie comportamentali tradizionali sono pensate per bambini con uno sviluppo tipico e non prendono in considerazione le peculiarità dei bambini con autismo.» (p. 212)

E questa è davvero fulminante: «Se il cane di Pavlov fosse stato autistico, i principi fondamentali del comportamentismo sarebbero diversi» (p.219)

Postilla. A pag. 15 ritrovo un’espressione a me cara: «L’autismo non è soltanto un problema educativo, ma anche politico: comprendere le strategie educative per aiutare le persone con autismo è giusto e corretto, ma per metterle in pratica sono necessari i mezzi adatti.» Ugualmente a p. 222: «Per questo sono necessarie molte risorse, e questa è una questione politica. La società deve essere preparata ad aiutare le persone più vulnerabili, mettendo a disposizione i mezzi necessari.»





Ha come sottotitolo Guida per gli operatori, e tutti coloro che trattano professionalmente con bambini autistici e con le loro famiglie dovrebbero leggerlo e meditarlo, ma è ricchissimo di spunti utili anche ai familiari. Il libro di Cesarina Xaiz e Enrico Micheli Lavorare con le famiglie dei bambini con autismo (Erickson 2011) offre un approccio che è insieme scientifico e umanistico, di uno spessore che si ritrova soltanto nella scuola belga di Theo Peeters. Micheli è stato uno straordinario maestro, e questo testo è in qualche modo la sua eredità. Il principio che anima l’opera e la riflessione di Xaiz e Micheli è espresso da quel lavorare con del titolo: l’autismo è  una realtà straordinariamente complessa, e ogni trattamento parziale effettuato da professionisti in un compartimento stagno non è adeguato, e può essere controproducente. L’autismo non ha origine nella relazione, come una volta si pensava (e come molti purtroppo si ostinano a pensare), ma la influenza nel modo più pesante, anzitutto nella famiglia, con esiti che possono essere distruttivi. La sindrome non è pervasiva solo a livello della persona che ne è direttamente colpita, ma pervade ogni ambito di vita della famiglia, trasformandola potentemente. Di questo non si tiene ancora sufficientemente conto nell’opinione pubblica e purtroppo anche nei servizi socio-sanitari. Di questo Xaiz e Micheli sono invece assolutamente consapevoli. «Data la durezza della vita e del lavoro con bambini che presentano un disturbo complesso come l’autismo (…) è necessario che professionisti e genitori si sostengano emotivamente a vicenda, anche perché, insieme, possono meglio ottenere dalla comunità servizi adeguati per il trattamento dei bambini e per la qualità della vita degli adulti» (p. 27). L’importanza della gestione delle emozioni (dei genitori, di fratelli e sorelle, dei terapisti, ecc.) non sfugge agli autori del libro, che avanzano proposte e forniscono indicazioni illuminanti. Anche il ruolo attivo dei genitori come gruppo che agisce in quanto tale, e al cui interno trovano un possibile allentamento le terribili tensioni che la vita con un figlio autistico può innescare, viene enfatizzato e illustrato.

«Innanzitutto, la salute dell’intera famiglia è importantissima e non va sacrificata all’idea di fare tutto per guarire il bambino: nella scelta di tempi, modi e obiettivi vanno calcolate le risorse dei familiari. Le relazioni tra genitori e bambini, terapisti e genitori, sono osservabili e trattabili come parte della natura: la nostra epistemologia include tanto le scienze cognitivo-comportamentali quanto quelle sistemiche. Questo vuol dire non limitarsi alla cosiddetta «terapia comportamentale» per l’autismo, che può essere estremamente riduttiva: è necessaria al contrario l’esperienza clinica della psicoterapia cognitiva, comportamentale e dell’ottica sistemica. Strategie di coping, interventi antidepressivi, cura della relazione tra coniugi, interesse per gli altri componenti della famiglia sono necessari quanto il lavoro con il bambino autistico per incidere sul benessere del piccolo e della sua famiglia.» (p. 32)












Una notte ho sognato che parlavi (Mondadori 2013) si inserisce nella moltitudine crescente dei libri-testimonianza scritti da coloro che vivono insieme ad una persona autistica, che solitamente è il figlio o la figlia. Questi libri si collocano su diversi livelli di scrittura e di comprensione della problematica dell’autismo, ma il più delle volte appaiono viziati da un ottimismo che mi sembra forzato e ingiustificato, anche se ne comprendo bene la causa profonda, che è l’impossibilità di accettare l’idea che il dopo di noi di quella persona che amiamo tanto sarà difficile o molto difficile. Il libro di Gianluca Nicoletti è diverso: lo sguardo è quello di un padre affettuoso ma nello stesso tempo quello del lucido, disincantato e spesso sarcastico conduttore di Melog su Radio 24. Una notte ho sognato che parlavi racconta quella che è stata finora la vita di Tommy, il figlio autistico (a basso funzionamento, quasi del tutto averbale, ottanta chili di muscoli a 14 anni, che fra poco sarà un gigante forzuto), nella sua quotidianità e nel rapporto col padre. Nicoletti mette in luce le caratteristiche che fanno di suo figlio una persona unica, e nello stesso tempo lo apparentano a tanti altri ragazzi che vivono la sua medesima condizione: io vi ho ritrovato molti tratti di mio figlio Guido (anche lui in terza media), che mi appare un quasi-fratello di Tommy. La penna iridescente di Nicoletti crea un’opera godibilissima anche da chi dell’autismo sappia poco o nulla, che riceverà nel contempo una vera illuminazione su cosa significhi avere un autistico in famiglia, e su come questa presenza possa far deflagrare  i rapporti familiari. E  su come la vita dei genitori sia una battaglia infinita, nei casi peggiori una via crucis.
Mi sembra di poter sottolineare due aspetti: anzitutto questo libro è anche una biografia di Gianluca Nicoletti, la storia di 14 anni della sua vita segnati dalla relazione condizionante con Tommy. In secondo luogo, questo libro pone quello che per me è un problema fondamentale: quello dell’identità della persona con autismo e della ricezione sociale di questa identità. Il modo in cui una società affronta una malattia o una disabilità è infatti determinato dalla sua lettura della malattia o disabilità, ovvero dalla idea generale che ne ha, che permea la società stessa, e si riflette nei media con un gioco di specchi. Della persona con autismo, dunque, oggi l’immagine che circola è quella del Rain Man, della persona bizzarramente intelligentissima, cioè quella dell’autistico ad altissimo funzionamento o dell’Asperger. Si tratta di persone che hanno una mente differente, ma che con una serie di accorgimenti possono essere inserite a pieno titolo, anche produttivamente, nella società. Il figlio di Nicoletti e il mio, autistici a basso funzionamento, con fortissima disabilità intellettiva, per quanto pieni di vita e di forza saranno sempre incapaci di autonomia, e non svolgeranno mai un qualche ruolo produttivo. Questo abisso che sussiste all’interno della galassia autistica non viene in genere adeguatamente sottolineato, se ne parla poco. Il libro di Nicoletti, di contro, pone questo problema con forza: è come se esistessero due autismi, e forse bisognerebbe decidersi ad abbandonare la parola stessa autismo, trovandone altre, più precise e funzionali. Invece il mondo sembra andare nel senso opposto, e il DSM V farà sparire la categoria Asperger, annegando tutto nella categoria spettro autistico, nella quale rientreranno l’Asperger esperto di sistemi informatici e Guido che non raggiungerà mai il concetto del numero 4. Quella di autistico sta diventando, se non lo è già, un’etichetta socialmente disfunzionale. Il libro di Nicoletti è da leggere.






Quel particolare insieme di libri sull’autismo che è il gruppo dei libri scritti da genitori si arricchisce continuamente di nuove opere. Sono opere in cui solitamente prevale l’aspetto della testimonianza, con un risvolto affettivo molto marcato, sia che si ponga l’accento sulle sofferenze e sulle difficoltà, sia che si voglia enfatizzare l’affetto che il genitore nutre per il figlio disabile, fino a  giungere in certi casi a considerare la disabilità del figlio un dono del cielo, uno strumento della propria auto-realizzazione. Si tratta dunque di un gruppo molto eterogeneo, sia dal punto di vista della qualità della scrittura, sia da quello della natura della testimonianza resa, sia infine da quello della competenza sull’autismo in generale posseduta dagli autori. L’ultimo libro di Gianfranco Vitale, Mio figlio è autistico (Vannini 2013), all’interno del gruppo in questione occupa un luogo eminente. Il libro è una testimonianza ampia, sostenuta da un patrimonio di conoscenza, esperienza e riflessione accumulato nel corso dei trent’anni di vita del figlio, Francesco, che insieme al padre è il protagonista della vicenda. E non è una testimonianza come tante, perché Vitale si confronta con le strutture sociosanitarie e i loro deficit culturali sull’autismo, con le associazioni e le loro prassi (o disprassie), con le cooperative e le comunità: insomma, con tutto il milieu che ben conoscono i genitori di una persona con autismo che passa attraverso l’infanzia, l’adolescenza e la prima età adulta, imbattendosi in una serie di crescenti incomprensioni del suo modo di essere e delle sue esigenze, per arrivare a sperimentare una vera e propria negazione della sua vita, come dice il sottotitolo del libro. È anche una testimonianza che manifesta una buona qualità narrativa, tanto da risultare una sorta di romanzo-verità.

Il libro pone una questione radicale. Quando, infatti, si può dire che una vita umana sia negata? Può essere negata come pura e semplice vita, quando l’essere umano viene ucciso, ma può essere negata anche come umana, quando viene privata di ciò che rende umana una vita, ad esempio eliminandovi qualsiasi traccia, anche la minima, di esperienza della libertà. Può essere negata come umana anche mediante il non riconoscimento delle esigenze singolari connesse ad un modo di essere dell’umano, di questo concreto essere umano, il non riconoscimento della sua specificità irriducibile, dei suoi codici e delle sue limitazioni essenziali.  Questo è il tipo di negazione della vita che hanno subito e continuano a subire, giunte all’età adulta, molte delle persone cui è stata applicata l’etichetta dell’autismo. Soprattutto quelle che appaiono più gravi, che hanno un ritardo cognitivo, che non parlano o presentano forti limitazioni nel linguaggio, che manifestano problemi comportamentali e non sono in grado di vivere negli ambienti sociali consueti, e meno che mai di condurre una vita indipendente. Rinchiusi negli istituti, senza spazi adeguati e possibilità di movimento, e senza stimoli che li aiutino ad uscire dalle loro stereotipie, costoro vegetano in uno stato di sedazione permanente, mentre i loro organismi devono smaltire dosi quotidiane di farmaci di ogni genere. Finiscono per vivere una vita larvale, spettrale, priva di dignità e di senso. Quella del senso, della sua attribuzione e condivisione, che nell’autismo è il problema fondamentale, nelle istituzioni che si occupano di autismo rimane una domanda che non solo non trova una risposta, ma che non viene neppure adeguatamente formulata. Questo anche per il semplice fatto che le istituzioni che si occupano di persone con autismo hanno dell’oggetto della loro attenzione, cioè dell’autismo stesso, una conoscenza superficiale, precaria, e qualche volta del tutto priva di fondamenti.

Quello di Vitale è il libro di un padre. Qui, a differenza di quel che avviene nella maggior parte delle famiglie in cui entra l’autismo, è la madre ad essere latitante, ad essere inadeguata anzitutto davanti alla necessità di comprendere l’autismo del figlio, e quindi il figlio stesso. Il padre qui prende sulle spalle il figlio – è l’inverso di Enea -, ma il suo lungo cammino non sembra godere della protezione di una dea. Una fatica immane, con momenti di felicità, ma soprattutto con grandi angosce, sofferenze e incomprensioni da parte di chi dovrebbe comprendere e aiutare. Il messaggio infine è chiaro: anche a parità di risorse impiegate, la vita dei soggetti autistici potrebbe essere molto più umana e ricca di senso se la conoscenza dell’autismo in coloro che operano, a tutti i livelli, con le persone con autismo fosse maggiore. Se non si coglie l’autismo dall’interno, ogni sforzo sarà vano, e le vite delle persone con autismo continueranno ad essere negate. Quella del libro di Vitale è una grande lezione, che dovrebbe essere fatta ampiamente conoscere.






Le percezioni sensoriali nell’autismo e nella sindrome di Asperger di Olga Bogdashina, è pubblicato in Italia dalle edizioni uovonero (2011). Il titolo originale col sottotitolo è lungo ed eloquente: Sensory Perceptual Issues in Autism and Asperger Syndrome. Different Sensory Experiences – Different Perceptual World. Esperienze sensoriali differenti – mondo percettivo differente: questo è il dato essenziale, che fonda l’intera argomentazione del testo di Olga Bogdashina. Si tratta di un libro uscito nel 2003, e in questi 10 anni la ricerca sull’autismo ha realizzato grandi progressi, e tuttavia quel dato essenziale rimane: se è vero che le persone autistiche hanno esperienze sensoriali differenti da quelle dei neurotipici, e da questo deriva un loro mondo percettivo differente, e da questo conseguono comportamenti che ci appaiono insensati, e che poi vengono trattati a prescindere dalla comprensione di quel mondo, le problematiche rimarranno sempre gravi, e ciò che si otterrà sarà solo, eventualmente, una modifica della parte emersa dell’iceberg autismo, mentre la parte immersa e invisibile, la più grande, rimarrà intatta.
Un piccolo esempio soltanto: «Molti individui autistici hanno riferito di avere grosse difficoltà a tollerare luci fluorescenti, poiché sono in grado di vedere uno sfarfallamento con frequenza di 60 cicli al secondo. I problemi legati agli sfarfallii possono andare da un eccessivo affaticamento degli occhi al vedere una stanza “pulsare” (Grandin). Alcune persone riferiscono di sentirsi assonnare quando le luci fluorescenti sono accese.» (p. 70) In tutte le scuole italiane i nostri figli autistici hanno i loro banchi sotto belle luci al neon, magari in classi dove regnano disordine e rumore, e questo viene chiamato integrazione!

Il libro della Bogdashina offre una panoramica molto vasta e articolata delle problematiche sensoriali,  e dovrebbe costituire una lettura obbligatoria per tutti i neuropsichioatri italiani. Dal canto nostro, aderiamo totalmente a quanto l’autrice scrive nelle conclusioni (p. 193): «Poiché una qualche disfunzione sensoriale è presente in tutti gli individui con autismo, sarebbe utile ai genitori dei bambini autistici e ai professionisti che lavorano con questi bambini essere più informati sui problemi senso-percettivi che essi incontrano e sui possibili modi di aiutarli.
In ogni caso, dobbiamo smettere di tentare di renderli “normali” e di adattarli al nostro mondo. L’obiettivo di ogni intervento dovrebbe essere aiutare gli individui autistici ad affrontare i propri problemi e a imparare a funzionare nella comunità. Qualsiasi programma di trattamento o di terapia venga utilizzato non li renderà meno autistici. Un’accresciuta autoconsapevolezza può però portare a compensare meglio le proprie difficoltà, il che a sua volta può ridurre i sintomi e rendere l’autismo meno disabilitante.»